
Finalmente possiamo dimenticarci Zhang Yimou e il suo brutto tentativo di portare i fratelli Coen in Oriente facendo il remake di Blood Simple: Beasts Clawing at Straws non s’ispira direttamente al cinema dei fratelli, ma tutto sembra guardare a loro. Al centro c’è una borsa piena di soldi e intorno a essa un gruppo di personaggi più o meno loschi e più o meno sfigati che vuole impossessarsene, il tutto con la divisione a capitoli e il mescolamento temporale che il post-moderno (anche prima di Tarantino) ha reso comune allo spettatore.
Quello che rende l’esordio di Kim diverso dalla mera derivazione coeniana è la serietà d’approccio, laddove il cinema post-moderno rigettava di “credere” al racconto come fonte di verità ma ne svelava l’artificio con l’ironia, Kim invece vuole dare credibilità alla vicenda pur grottesca (in questo sì, è un film post-Tarantiniano) e così si concentra sui personaggi prima che sulle loro azioni, sugli attori prima che sulla macchina da presa, costruisce il ritmo con un calibro preciso e un crescendo inarrestabile, mai frenetico e sa farsi sottilmente tragico mentre guarda alla stupidità umana che si travesta da astuzia, come nel caso dei due personaggi migliori: il poliziotto che pare la versione contemporanea del tenente Colombo – ma che si crede più scaltro di ciò che è – e la maîtresse vittima della sua stessa intelligenza. Kim non vuole adeguarsi alla corrente egemonica del cinema sud-coreano, seppure il discorso sociologico di fondo è piuttosto diffuso, ma guardando altrove cerca una corrente propria, speriamo riesca a seguirla fino in fondo.